Art between the lyrics


Isabella Falbo



Get your flee-flaps out! Ovvero “tirate fuori i vostri battiti d’ala per prendere il volo”  è il prosieguo di Sister Morfin, mostra-evento-tributo ai Rolling Stones ma anche modo di indagare attraverso la relazione tra le opere degli artisti invitati e le canzoni che le hanno ispirate, i sixties al negativo fino a giungere, in questa edizione, agli anni ’80. 


Con un approccio antitetico rispetto la consolidata visione ottimistica dei “ favolosi anni sessanta”, si vuole qui sottolineare il lato solitamente omesso dell’ “epoca dell’ottimismo”: l’idea di ribellione nichilista, la disillusione, l’assenza di aspettative, la marginalità e la malinconia che i Rolling Stones hanno saputo dipingere e trasmettere attraverso la loro musica. 


Fatta eccezione per la produzione del breve periodo che va dalla metà del 1966 alla metà del 1968 con brani sperimentali composti in una logica di moda e di diversivo, la società cantata dai Rolling Stones non è quella psichedelica dai colori luminosi caratterizzata dai fiori e intrisa di utopia pacifista e comunitaria, ma l’alternativa meno appealing e felice, composta da toni ed elementi oscuri. 

Nella luccicante Swinging London degli anni '60, gli Stones sono i portavoce del disagio e incitano, anche se in maniera a volte sconclusionata, alla disobbedienza e alla violenza, rappresentano l'anima nera e sotterranea delle città, quella che si nutre di baccanali assordanti nei club underground e che vibra della rabbia dei sobborghi più violenti e degradati.

Canzoni scandite come slogan dell’altro volto di un epoca, blues dalle venature acide e country, la produzione musicale dei Rolling Stones non ha nulla di consolatorio e non è un manifesto politicizzato, come la musica di Bob Dylan che proprio in quegli anni mostrava di credere di cambiare il mondo con una canzone, ma è composta da brani di disillusione dai quale emerge una trasgressione ironica raccontata con toni di sberleffo. Le loro canzoni sono affollate di personaggi turpi e dissoluti: squilibrati, tossicomani psicopatici, prostitute, delinquenti. 


Attraverso i lavori degli artisti invitati, ognuno dei quali ispirato ad una canzone, compiremo un viaggio attraverso l’epoca sixties osservata dalla prospettiva “al negativo” non senza renderci conto delle assonanze con l’epoca attuale. L’insoddisfazione, Stefania Ricci, Angie, il crollo dei valori tra cui quello del corpo e il conseguente vendersi per poco o nulla: Milena Sergi , Honky Tonk Women, la perdita della fede: Roberta Fanti, Saint of me, i problemi identitari e la schizofrenia postmoderna: Karin Andersen, Monkey women, ecc.

Elementi e problematiche in comune che ci fanno sospettare/sperare l’avvento di una nuova rivoluzione all’interno di una contemporaneità al negativo.


Monkey man / Karin Andersen, Monkey woman


Sono uno sputo di nocciolina americana e tutti i miei amici sono drogati (...)

sono stato morsicato, sono stato sbattuto qua e la’da ogni topo femmina di questa citta’ (...)

be’ sono proprio un uomo scimmia, sono felice che tu sia una donna scimmia (...)

“Monkey man”, 1969


Osservando l’atmosfera rossa e ovattata dell’elaborazione digitale Monkey women di Karin Andersen ci sembra di sentire l’intro simil-psichedelico di Monkey man dall’album Let it bleed, una sorta di luminosità oscura sembra associare le visioni visiva e sonora.

Karin Andersen giocando referenzialmente con il testo di Monkey man  in Monkey woman prosegue la sua tradizione di trasformazioni teriomorfiche, una donna scimmia sta aspettando tranquillamente qualcuno, presumibilmente il suo uomo scimmia.


Dancing with Mr.D. / Bruno Benuzzi, Inferno


Io ballavo, ballavo, ballavo cosí libero

…Signore, giù le mani di dosso

Ballavo con Mister D., con Mister D., con Mister D.

“Dancing with Mr.D”, 1973



Argomento della canzone Dancing with Mr D. e soggetto di Inferno di Bruno Benuzzi é la figura del demonio. Attraverso una tecnica pittorica sperimentale e raffinata, una ricerca artistica strettamente legata alla bellezza formale ed estetica che emerge dagli equilibri endogeni della composizione, Benuzzi ci presenta il suo Mister D. edulcorato e neo psichedelico. 

Protagonista di un inferno allucinogeno che recupera elementi della cultura Pop e Glamrock, il demonio di Benuzzi ci riporta mentalmente alla performance di Simpaty for the Devil, eseguita durante lo storico concerto ad Hyde Park del 1969, dove, in contrapposizione di un Mike Jagger in bianco dalla presenza angelica, un personaggio stregonesco, quasi diabolico, si scatena in un rito tribale.


Sympathy for the Devil / Bruno Benuzzi, Pandemonium


Per favore permettete che mi presenti, sono un uomo ricco e raffinato, 

Sono stato in giro per tanti lunghi anni (...)

Piacere di conoscervi, spero che abbiate indovinato il mio nome, ma quello che non riuscite ad indovinare e’ la natura del mio gioco (...)

“Sympathy for the Devil”, 1968



 “Sympathy for the Devil”, pietra miliare,  uno dei brani fondamentali riproposti sempre, durante ogni concerto, e’ la canzone che apriva l’album “Beggar’s banquet”, l'album politicamente e socialmente più esplicito. 

Bruno Benuzzi con “Pandemonium”, tecnica mista su chibacrome, ci presenta in chiave estremamente raffinata, caratteristica della sua pratica artistica, una riunione di spiriti malvagi ricollegabili piu’ ai soggetti ed ai colori di un viaggio nella psichedelia acida, piuttosto che ai toni marcatamente riflessivi di “Sympathy for the devil”, trovando comunque un comune denominatore nell’ironia con cui il soggetto è presentato.


Child of the moon / Gaetano Buttaro, Child of the moon


Il vento soffia pioggia sul mio viso, il sole fiammeggia alla fine dell’autostrada, 

figlio della luna strofina i tuoi occhi di pioggia,

 figlio della luna donami un sorriso a occhi bene aperti (...)

“Child of the moon”, 1968


Con Child of the moon, elaborazione digitale su forex, Gaetano Buttaro si ispira liberamente al titolo dell’omonima canzone proseguendo la sua attuale ricerca artistica sviluppata attraverso il gioco di mimesi tra il suo corpo e gli elementi della natura. La dualità distintiva e caratterizzante la pratica artistica di Buttaro appare in quest’opera nella coppia binaria umano/animale (uomo lupo). Il registro compositivo in cui si muove il “figlio della luna” di Buttaro distoglie la mente dello spettatore dalla linearità semplice ed elementare caratteristica di quello musicale di Child of the moon, evocando piuttosto la stessa binarietà del registro di 2000 light years from home.


Beggar’s banquet / Cuoghi Corsello, Schifio



“Beggar’s banquet”, 1968


Ironici e divertenti come sempre Cuoghi e Corsello presentano in questa occasione il diavoletto Schifio, l’ultimo nato dalla loro ecclettica produzione di personaggi ed esserini onirici intrisi di rimandi intimistici e privati in un connubio indissolubile tra regressione infantile e progressione artistica.

Nel paradosso tra l’imput iniziale – ispirazione alla copertina di Beggar’s banquet riproducente l’interno di un malfamato gabinetto con tutti gli scarabocchi degni del luogo e il gioco di rimandi concettuali, Cuoghi e Corsello propongono una stampa fotografica dove Sergio Dagradi come modello indossa una T-shirt nera raffigurante il volto di uno Schifio argentato dalle corna preziosamente sfumate verso l’oro alla ricerca di un’ironica santità. 


Brown sugar / Sergio Dagradi, Brown sugar; Sister Morphin; Stony tongue stony lip.


La nave di schiavi dalla Costa d’Oro è diretta ai campi di cotone(...)

Il vecchio negriero sfregiato è in gamba, sapete?Sentite come frusta le donne verso mezzanotte

Zucchero di canna, com’è che sei così buono? Zucchero di canna, proprio così dovrebbe essere una ragazzina(...)

“Brown sugar”, 1969


(...)E proprio questo dimostra che le cose non sono quel che sembrano, ti prego Sorella Morfina, trasforma il mio incubo in un sogno.

(...)tu conosci il momento fra la notte e l’inizio del giorno, quando ti siedi lì intorno e guardi e intanto le lenzuola si tingono di rosso.

“Sister Morphine”, 1969



Brano d’apertura dell’album Sticky Fingers, riproposto ad ogni live, Brown sugar è, come la definisce l’artista, la canzone dal riff iniziale inimitabile ed assoluto. Il nome Zucchero di canna viene usato come vezzeggativo per le ragazze di colore e appellativo per una qualità di eroina.

L’installazione di Sergio Dagradi si presenta come una triplice interpretazione del logo dei Rolling Stones “Lip and Tongue”, giocando col minimalismo della forma e la concettualizzazione dei significati, tra malinconia e sberleffo.

L’opera Brown Sugar, dispiegandosi sul picture disk Sticky fingers come supporto, presenta un rielaborato logo dalla texture marrone posto fra zollette di zucchero di canna, brown sugar/qualità di eroina/ragazza nera.

In Sister Morphine, il logo viene manipolato rendendone la superficie liquida, rossa e sierosa, sovrastato da una siringa, in una sorta di natura morta dalla cui analisi strutturale emerge la simbolizzazione di una trasgressione perversa e perdente.

Stony tongue stony lip è la messa in posa del logo dopo che l’artista, come alchimista contemporaneo, si è divertito a trasformarlo in pietra attraverso piccoli tocchi di spatola.


Sitting on a fence / Cinzia Delnevo, Sitting on a fence



Sono seduto su una staccionata

Tu puoi dire che non ha senso

Provare a prendere una decisione

Veramente, é troppo terrificante 

Cosí sto seduto su una staccionata

“Sitting on a fence”, 1967


Dall’album flowers, Sitting on a fence è il riferimento diretto dell’opera fotografica omonima di Cinzia Delnevo, creata ad hoc sulle emozioni suscitate dalla canzone degli Stones.

La staccionata, come simbolo di separazione, il “fence sitter”, atteggiamento metaforico di chi vuole evitare di prendere una decisione quando occorre scegliere tra due o più parti, così come il protagonista della canzone non può o non vuole scegliere tra il bene e il male e preferisce stare seduto sulla staccionata per vedere tutto, essere aperto verso tutte le direzioni, così appare la riflessiva, malinconica tranquillità di Cinzia Delnevo nel suo autoscatto.

Protagonista e attrice di tutti i suoi scatti, Cinzia Delnevo ha un approccio tecnico alla Sherman, le sue fotografie non aprono mai sulla sua vita, non sono autobiografiche, pone dettagli e indizi all’interno della rappresentazione ma lascia comunque allo spettatore il piacere di svilupparsi la storia nella sua mente.

In linea con l’attuale pratica artistica della Delnevo incentrata sulla ricerca della purezza, Sitting on a fence è immersa nell’atemporalità con l’intento di conferire universalità all’opera, gioca sull’atmosfera dell’alba e gli stati d’animo post-party. Giorno o notte, felicità o stanchezza del mattino, la protagonista sembra avere fatto una scelta, quella di non scegliere parti.


She is the boss / Danilo Derenzis, She is the boss


Così femminile, sembravi persa

Che pazzo ero

...Lei é il capo!

...Lei é il capo in ufficio, lei é il capo in cucina,

lei é il capo a letto, lei é il capo nella mia testa

“She is the boss”, 1985


Come il testo stoniano é un viaggio all’interno dell’ “ossessione” di Jagger per le donne, così la gattina piatta di derivazione manga giapponese di She's the Boss di Danilo Derenzis é al centro della composizione, dell’attenzione e tutto il resto, sintetizzato, passa in secondo piano.


Saint of me/ Roberta Fanti, Saint of me


San Paolo il persecutore era un peccatore, Gesu’ lo colpi’ con una  luce accecante e la sua vita inizio’(...)

(...)Credo nei miracoli e voglio salvare la mia anima, so che sono un peccatore e che moriro’ qui al freddo,

ma ho detto si, ho detto si, ho detto si, tu non farai mai di me un santo (...)

“Saint of me”, 1967



Lo stile asciutto, lineare e nitido di “Saint of me” si confa’ particolarmente bene alla reinterpretazione visiva che ne da’ Roberta Fanti.

In linea con la sua ricerca piu’ attuale della serie “Les pecheurs”, “Saint of me”, elaborazione digitale su plexiglass, rappresenta una triplice visione, estetica e patinata di quello che potrebbe essere definito un “dolore edonistico”, lo stesso che redime e che puo’ portare sulla via della santita’.

Di grande impatto visivo e percorsa dal sottilissimo confine tra spiritualita’ e piacere, Roberta Fanti lavora su coppie antitetiche di significante – passione/piacere, spiritualita’/carnalita’, sacro/profano, antico/moderno- le stesse su cui gioca il testo “Saint of me” dei Rolling stones.


Too much blood / Roberta Fanti, Too much blood



Voglio ballare, voglio cantare, voglio buttare tutto per aria

 per fare un pò d’amore.....

La sento dovunque, la sento tutto intorno

Sento la tensione nell’aria, c’é troppo sangue

Troppo sangue, troppo, troppo sangue

“Too much blood”, 1983



La violenza, tema trattato dai Rolling Stones attraverso l’opera Too much blood di Roberta Fanti viene affrontato in questa mostra per la prima volta. 

Ispirata dalla canzone omonima tratta dall’album Under Coverd del 1983, l’opera della Fanti presenta assonanze strettissime con Too much blood degli Stones, sia dal punto di vista stilistico che nel messaggio trasmesso, entrambe attraenti nella loro superficialità e specchio della società di oggi,  anestetizzata, esteriormente patinata, torbida nell’intimo.

Il trittico di Roberta Fanti, di grande impatto visivo e fashionable nonostante il soggetto, in linea con la dualità che abbiamo dentro dettata dalla schizofrenia del nostro tempo, gioca sul doppio livello di lettura amore/odio, coppia antitetica di significante all’interno della quale lo spettatore/ascoltatore, protagonista attivo di questo scenario ha il compito di decidere dove finisce l’odio e inizia l’amore.


No expectations, Love in vain/ Àsdis Sif Gunnarsdóttir, Untitled”, Fear of love


Portami alla stazione e mettimi sul treno, non ho aspettative di passare qui ancora (...)

Una volta ero un uomo ricco ed ora sono povero,

ma  mai durante questa mia dolce e corta vita mi ero sentito come adesso (...)

“No expectetions”, 1968


L’ho seguita alla stazione con una  valigia in  mano (...)Bene, è dura ammetterlo, è dura ammetterlo, tutto il mio vero amore invano (...)

(...)quando il treno ha lasciato la stazione avevo due luci dietro di me, quella blu era il mio bambino, quella rossa era la mia mente

“Love in vain”, 1969


Nelle proposte di Ásdis Sif Gunnarsdóttir Untitled, stampa fotografica e Fear of love, still da video, i riferirementi a No expectation e Love in vain non sono esplicitamente voluti dall’artista ma direttamente evocati dalle sue opere.

In Untitled, la diafanità dell’immagine ed il soggetto appaiono come una reinterpretazione ancora più intimistica di No expectations, quasi la sua continuazione narrativa.

Fear of love nasce come video del quale viene qui proposto uno still rappresentante una ragazza con una corona di candele. L’immagine nasce dalla tradizione scandinava, in occasione dei tradizionali festeggiamenti di Santa Lucia, il 13 dicembre. Gunnarsdóttir rielaborando questo evento religioso gioca con l’elemento della luce per parlarci d’amore, un amore che fa paura come la sofferenza di rendersi conto di averlo sprecato con la persona sbagliata. L’immagine appare carica di significati e rimandi simbolici ma sembra fluttuare come una litania dagli stessi toni di Love in vain.


It only rock’n’roll (but i like it) / Marco Lodola, Mick Jagger ringrazia


(...)ho detto che so che è solo rock’n’roll ma mi piace, 

So che è solo rock’n’roll ma mi piace, mi piace, si’ mi piace (...)

“It’s only rock’n’roll”, 1974



Di grande impatto la “plastica” di Marco Lodola, struttura bidimensionale raffigurante Mick Jagger nell’atto di inchinarsi verso il suo pubblico.

In linea con una produzione artistica fatta di sagome di plexiglass, icone e stereotipi degli anni ‘30/’40/’50’/60 intrise di una rielaborata storia dell’arte - la dinamicità ritmica futurista, la formalità pop, il minimalismo alla Dan Flavin e il concettualimo di Mario Mertz -  in Mick Jagger ringrazia, Marco Lodola, attuando una sorta di citazionismo involontario e illustrativo, sceglie come climax rappresentativo il momento in cui l’esasperazione del gesto si fa prostrazione, connaturandosi con il brano It’s only rock ‘n’roll, but I like it, canzone manifesto della presa di coscenza da parte dei I Rolling Stones di non poter cambiare il mondo con una canzone.  

Con la caduta di tutte le utopie sixties, passato il ’68, Wootstock e gli anni delle grandi illusoni si fa spazio l’accettazione del ridimensionamento del ruolo dell’icona/rock star, come Jagger sembra comunicare in questo testo, “.. sono qui per intrattenervi, non per trasmettervi dei messaggi”, perchè la musica al pari di tutte le arti migliora la qualità della vita, è conoscenza, divertimento, può denunciare lo stato delle cose ma non cambiarlo.


Casino Boogie / Christian Rainer, Google prova a tradurre le canzoni dei Rolling Stones

“Casino Boogie”, 1972



Improntato sull’ironia della distorsione con probabili rimandi non casuali alla comunicazione globale contemporanea, Christian Rainer nascosto sotto lo pseudonimo di Madame Becassine ci presenta  una  sorta di installazione composta dalle traduzioni automatiche di alcuni fra i testi più famosi dei Rolling Stones. Brown sugar diviene così Zucchero marrone  e Satisfaction, attraverso un’ulteriore gioco di parole pseudo-dadaista, Soddisfazione.


Angie / Stefania Ricci, Angie


Oh Angie, Angie (...)senza amore nell’anima e senza soldi in tasca non puoi dire che siamo doddisfatti,

 ma Angie, non puoi nemmeno dire che non abbiamo provato(...)

Ma Angie, io ancora ti amo, bambina, dovunque guardo vedo i tuoi occhi (...)

“Angie”, 1973


Tutta la delicatezza e dolcezza dei tocchi della musicalità del pianoforte e delle parole del testo di Angie li ritroviamo nei tocchi di turchese e nel profilo candidamente imperscrutabile dell’opera omonima di Stefania Ricci. 

Con Angie Ricci va oltre i parallelismi visivo/sonori tra musica e rappresentazione per spingersi in un gioco ludico di rimandi, come la fasciatura dei visi dei cinque Rolling Stones nella copertina di Goat’s head soup, album che conteneva Angie e a sua volta, probabile esplicito rimando alla pratica artistica di Christo che aveva appena realizzato Valley Curtain, 1972, fasciando il Grand Hogback Rifle nel Colorado.


(I can get not) Satisfaction / Veronica Romitelli, I am a rolling stone


  ..Non riesco ad avere nessuna soddisfazione, e ci provo  e ci provo, ma non riesco. Quando guido la macchina,(...) quando quado la televisione, (...)quando giro intorno al mondo (...)

 “(I can get not) Satisfaction”, 1965


Canzone manifesto del gruppo e in breve diventa l'inno della gioventù frustrata (I can get no) Satisfaction viene reinterpretata da Veronica Romitelli con il video I am a rolling stone, giocando con gli stessi toni di ironia e sberleffo che caratterizzarono l’interpretazione di Mick Jagger.

Il video I am a rolling stone si compone di due filmati affiancati, uno a colori e l’altro bianco e nero e affiancati in cui l’artista consolida la sua vocazione di camaleontica performer.

Nei panni di una ragazzina dalle ambizioni di groopie Veronica Romitelli canta Satisfaction, in un modo dagli intenti seducenti mentre incarnare perfettamente quel personaggio “basso”, quello “strano gatto randagio” di Stray cat blues: la ragazzina di quindici anni, l’amore dagli occhi spaventati, inquieta e lontana da casa per la quale ci sarà una “festa” se lei lo vorrà.

Nel secondo filmato, la protagonista è ripresa mentre intenta, si cuce sul palmo della mano “I am Rolling Stone”, utilizzando la propria pelle come tessuto.


Honky Tonk Women / Milena Sergi , Honky Tonk Women


...Ho incontrato a Memphis una di quelle “reginette da bordello” fradicia di gin. Ha cercato di rimorchiarmi di sopra per una scopata, ha dovuto portarmi sulle spalle visto che neppure bere mi fa dimenticare di te..

“Honky Tonk Women”, 1969


Milena Sergi proseguendo la sua indagine sul corpo femminile attraverso una pratica artistica caratterizzata da un’eccezionale manualità e un’innovativa tecnica pittorica, con l’opera omonima Honky Tonk Women reinterpreta il soggetto di questa canzone, la malinconia, che porta al disfacimento morale prima e fisico poi.

Seguendo la scia di maestri come Lucien Freud e Bacon e dimostrando una vicinanza tanto intensa quanto casuale con Jenny Seville, l’artista attraverso una realtà velata di astrazione e una narratività composta da primissimi piani, rappresenta una sorta di intreccio erotico di corpi femminili, nudi, in tutta la loro debordante plasticità.


 

ISABELLA FALBO, testo relativo alla mostra Sister Morphine, a cura di Sergio Dagradi e Isabella Falbo, Neoncampobase Milano, 2006; Testi aggiuntivi relativi alla mostra Get your flee-flaps out!, a cura di Sergio Dagradi e Isabella Falbo, Villa Serena, Bologna, 2007